Testi e ricerche di Marco Atzeni
Su un praticello lungo il viale, una bimba stava china sopra una colorata distesa di fiori e ne sceglieva alcuni. «Li raccolgo tutti!», mi confermò quando le passai a fianco e mi sorrise strizzando gli occhietti. Un fermaglio col fiocco le teneva i capelli ordinati e indossava un grazioso grembiule con degli ometti ricamati. Mise una manina in una delle tasche ed estrasse qualche fiorellino stropicciato che aveva appena colto. Me ne porse uno e tenne gli altri stretti nel pugno. «Grazie!», dissi accettando il dono. «I fiorellini sono belli. Sono i miei!». Non disse altro e a passettini rapidi raggiunse un muretto. Vi si poggiò, mettendosi in posa, e non si mosse più. Mi avvicinai e le accarezzai il viso, accorgendomi con stupore che era diventata una piccola statua. Nella manina sinistra, anche i fiori erano di pietra. Eppure, mi guardava ancora con aria curiosa.
La piccola Teresa nacque a Sassari nel 1909. Suo padre si chiamava Simone Cicu ed era uno dei dirigenti dell’allora Intendenza di finanza in piazza Azuni, sua mamma era la giovane Angela “Gella” Zavatti. C’era anche un fratellino, Tommaso. Teresina Cicu Zavatti contrasse una crudele malattia che ne offuscò lentamente la vivacità e nell’aprile del 1913, a tre anni e mezzo, si spense nel suo lettino dopo lunga sofferenza. Il funerale partì dall’elegante palazzo tutt’ora esistente all’inizio di via Manno, dove la benestante famigliola viveva, e sotto un sole primaverile una folla commossa accompagnò la piccola per l’ultima passeggiata verso l’infinito. Per il trasporto della marea di fiori si dovettero noleggiare due apposite carrozze, chiamate “landò”, che seguirono il corteo. Teresina era amata da tutti e quella triste mattina anche l’Intendenza di finanza chiuse per solidarietà nei confronti del babbo. I genitori commissionarono a Giuseppe Sartorio una dolce statua a immagine della sfortunata figlioletta e grazie alla quale il ricordo di Teresina ha sconfitto il passare del tempo, arrivando fino a noi. Oggi, dopo oltre un secolo, potete incontrarla che gioca coi fiori che le furono regalati, ma non temete per lei, non è più sola, alcuni decenni dopo la sua morte, la raggiunsero la mamma e il papà, che le riposano a fianco e la proteggono per l’eternità. Il triste epitaffio è scolorito, ma per volere del fato è rimasta leggibile solo una frase, la più bella: “Gioia della nostra vita”.
LA SOLITUDINE DI BARBERINA
Per l’ennesima volta il mio sguardo cadde su quella lapide e mi ci fermai davanti. Le lettere scolorite, ancora decifrabili sullo sfondo marmoreo, componevano un epitaffio misteriosamente ipnotizzante. «Buonasera», una voce femminile giunse improvvisa. Pensavo d’esser solo, nel viale, e mi voltai di scatto. Una donna in nero, con gli sbuffi sulle spalle, era comparsa al mio fianco. «Buonasera a lei», replicai. «È incuriosito?», disse con accento poco sassarese e indicando la lapide. «Questo epitaffio mi affascina, me ne domando da sempre il significato, signora». La donna sorrise. «Io ne sono a conoscenza». «Davvero? Lei sa qualcosa di Barberina Piccolina?». «Certo. Sono io, questa è la mia tomba». Sgranai gli occhi. «Davvero? La prego, mi racconti…» «D’accordo», fece un passo avanti, posò una mano sulla lapide e ripassò con l’indice quelle parole impolverate. Si girò verso di me e annuì. «Ho finito», disse. Allargai le braccia. «Finito… cosa? Lei non mi ha riferito niente… ha solo toccato la lapide!». «Non si angusti, rilegga ancora queste parole e stavolta avranno più significato». Il tempo di un battito di ciglia e la donna non c’era più. Scrollai le spalle e rilessi l’epitaffio, che già conoscevo a memoria. Finita la lettura, ebbi però un sussulto, tutto era inspiegabilmente più chiaro. «Grazie, Barberina», dissi al vento che mi accarezzava il viso. Inspirai soddisfatto e andai via, prima che i cancelli chiudessero e il sole tramontasse.
Barberina Piccolina nacque a Sassari nel 1833 in una famiglia benestante dedita alla burocrazia. Il padre Angelo Luigi lavorava immerso nei fascicoli dell’ufficio del regio patrimonio, mentre la mamma Chiara Maria Oggiano era la figlia d’un notaio. Barberina, fin da bimba, s’abituò al fatto che pochi la chiamassero correttamente. Per molti era Barbarina (con la “a”), mentre altri pensavano che il curioso cognome fosse il nome. Quel cognome, in realtà, aveva radici liguri, infatti, quando a metà ‘800 papà Angelo Luigi andò in pensione, la famiglia prese dimora anche a Genova, in via Alessi, nell'antico quartiere di Portoria. Barberina aveva due fratelli, Antonio e Salvatore, che tra Liguria e Toscana ricalcarono la carriera impiegatizia del padre, ma soprattutto c’era la sorella più grande, Francesca Rosa, che aveva sposato a Sassari il potente colonnello Giuseppe Tharena. Purtroppo, nel 1869, proprio l’adorata sorella morì a Genova. Il padre di Barberina non resse al lutto, mentre lei, con l’animo a pezzi, adottò i nipoti, rimasti orfani. Barberina, all’epoca quasi quarantenne, non aveva figli suoi e, tra l’altro, sorseggiando il tè ribadiva alle amiche di non volere un uomo a fianco. Passarono così i decenni, morti ormai entrambi i suoi genitori, i due fratelli maschi e il cognato, Barberina, ancor più ritirata, continuò a dedicarsi ai nipoti, divenuti giovani adulti. Gestiva pure il denaro arrivatole proprio dai due fratelli che, come lei, non ebbero discendenza. Nell’inverno del 1893, si spense silenziosa in un appartamento della graziosa palazzina di via Roma 22, dove viveva in affitto. Aveva 59 anni. Fu sepolta al cimitero monumentale di Sassari, da sola, come fu in vita, e non poteva sapere che il suo nome particolare e le poche parole volute sulla lapide dagli adorati nipoti l’avrebbero resa immortale, suscitando l’interesse di generazioni di sassaresi che da 130 anni vi passano davanti domandandosene il significato. L’epitaffio recita enigmatico: “A BARBERINA PICCOLINA, LA QUALE BASTO’ A SE STESSA, DECEDUTA IL DI’ 8 FEBBRAJO 1893, I NIPOTI RICONOSCENTI”. Se volete, passateci, e fatele sapere che ora conoscete la sua storia.
LA POESIA DI PIETRO
La pioggia scrosciava e trovai riparo sotto le fronde d’un albero. Mi guardai attorno intirizzito. Il viale era deserto e folate pungenti mi sferzavano il viso. D’un tratto una vocina cantilenante si fece nitida e comparve un ragazzetto che incurante del freddo stava immobile sotto l’acqua. Era assorto in un libro fradicio come la sua divisa blu e le gocce che grondavano dalla visiera del berretto gli scorrevano giù fino al mento.
Leggeva e ripeteva una nenia solitaria che interrompeva di continuo.
«Chi sei? Ti prenderai un malanno», dissi agitando un braccio.
«Sono Pietro, signore, e devo imparare la poesia, domattina il maestro mi interrogherà».
«Domani? Domani è domenica, non si va a scuola la domenica».
«Oh! No, signore. Domani andrò a scuola, eccome. E devo sapere bene la poesia».
Scossi il capo, confuso da tanta fermezza. Riprese a cantilenare e all’ennesimo tentativo terminò la poesia da capo a piedi. Mi sorrise compiaciuto.
«Finalmente l’hai ripetuta tutta, senza leggere!».
Non arrivò risposta. Pietro non c’era più, però giaceva tra l’erba umida il suo libro. Mi chinai e lo aprii. Era sgualcito e gonfio. L’inchiostro colava ed era indecifrabile chissà da quanto tempo. Lui come faceva a leggerlo? Rabbrividii, il temporale stava cessando e andai via da solo lungo il viale, stringendomi nella giacca.
Il
giovane Pietro nacque nell’estate del 1880, frutto del matrimonio
ben combinato fra i Diaz, nobili di Ossi, e i Derosas, latifondisti
di Usini. Il futuro dell’infante era foderato di aristocrazia e
ettari di oliveti, ma già il suo debutto non fu felice: aveva
ereditato il nome del padre, l’avvocato Pietro Giovanni Diaz, che
era morto appena quarantenne alla vigilia di Natale del 1879, sei
mesi prima che lui nascesse. Il bimbo crebbe a Usini abitando con la
madre Giovanna Derosas nell’elegante casa in piazza del Castello,
di proprietà del potente nonno Giuseppe Derosas, e a nove anni fu
ben pettinato e scarrozzato fino al centro storico di Sassari. Fu
infatti iscritto all’esclusivo Canopoleno e ospitato nel convitto
annesso alla scuola. L’alunno non era un genio, ma neppure uno
scansafatiche. Al quarto anno di frequenza, il mansueto Pietro
apparve sempre più fiacco e fu così ricoverato nell’infermeria
dell’istituto, ma la situazione precipitò nel cuore d’una fredda
notte di febbraio del 1893. Trasportato ormai senza speranze nella
vicina locanda San Martino in piazza Azuni, fu raggiunto a letto
dalla mamma, che poté solo stringerlo al petto per l’ultimo
respiro. I funerali si svolsero l’indomani alle tre del pomeriggio
e davanti alla folla accorsa dal paese d’origine parlarono di lui
con commozione il cugino, due convittori e il canonico del
Canopoleno. Finiva così, a dodici anni, la breve vita di Pietro Diaz
Derosas. La famiglia volle conservarne il ricordo commissionando al
Sartorio un busto per addolcirne la tomba e che lo immortala proprio
con la severa divisa scolastica, una scelta stilistica apparentemente
fuori luogo agli occhi moderni. Persino la lapide ribadisce con
orgoglio che era “studente del convitto nazionale” e ciò fa
capire, in realtà, quanto l’istruzione, oggi data per scontata,
fosse all’epoca un vanto per eletti. Se volete, Pietro riposa
ancora lì, da solo al cimitero monumentale di Sassari perché la
mamma è invece a Usini, e da oltre 130 anni aspetta qualcuno a cui
recitare la sua ultima poesia.
LA CESTA ALL'OMBRA
"Camminavo per il sentiero e un vagito arrivò nitido alle mie orecchie. Deviai dal percorso e seguii il lamento. Sull’erba all’ombra di un albero era adagiata una cesta e ci guardai dentro. C’era un neonato con i pugnetti chiusi che non si dava pace. Di chi era quel bimbo e perché era lì? Qualcuno lo aveva dimenticato? Dovevo fare qualcosa e mi allontanai dalla cesta. Percorsi da cima a fondo i sentieri circostanti, ma erano deserti e non trovavo nessuno ad aiutarmi. Il pianto echeggiava tra le fronde, ma d’un tratto cessò e arrivò la quiete. Tornai di corsa verso la cesta. Era arrivato qualcuno e mi fermai dietro una siepe. Una giovane donna stava inginocchiata e stringeva il bimbo al petto. In piedi al suo fianco c’era un uomo. Entrambi piangevano e con occhi grandi fissavano la creaturina. «Non dobbiamo lasciarlo», disse lei singhiozzando e baciando la testolina calva. L’uomo cinse da dietro la donna e il bimbo. «No! Non lo lasceremo mai più, amore». Il mio battito si rilassò e chiusi gli occhi per riprendere fiato. Quando li riaprii, davanti a me non c’era più nessuno, tranne una cesta vuota e il silenzio dei viali percorsi da un refolo di vento."
Un triste pomeriggio di metà ottobre 1918 un corteo funebre partiva da via Capra, una traversa di corso Vico. Il trentenne Orlando Idini, impiegato delle ferrovie reali a Sassari, era l’ennesima vittima della terribile “spagnola”, all’epoca chiamata “il morbo influenzale”. A guidare il corteo c’era la ventinovenne vedova, Filomena Gallizzi, che teneva in braccio il loro neonato figlioletto Bruno. La donna tossiva e in cuor suo sapeva d’esser stata contagiata dal marito. Infatti, neppure una settimana dopo, da via Capra partì anche la sua bara, avvolta nella bandiera della Torres di cui era patronessa. Il piccolo Bruno, che aveva soltanto tre mesi, rimase orfano e pur essendo indifeso, inspiegabilmente non contrasse il morbo. Straziate dal dolore per l’incredibile doppia perdita, le famiglie Idini e Gallizzi piansero i defunti sposini commissionando per la loro tomba al cimitero monumentale di Sassari una statua che raffigura proprio l’orfanello Bruno che si dispera sulle bare degli sventurati genitori. Intanto, zia Adele, con un gesto di immenso amore nei confronti della sorella Filomena, ne allevò il neonato come fosse suo. Non furono dunque l’affetto e il sostegno economico a mancare al piccolo, il cui nonno materno era il mitico Giovanni Gallizzi, fondatore della gloriosa tipografia ancora oggi esistente. Bruno divenne ragazzo e poi uomo, ma crebbe con un invisibile velo di malinconia che ammantò tutta la sua esistenza. Visse da persona solitaria, non si sposò e anche da adulto passava le giornate nella sua camera, immerso nei libri e nei francobolli, schiacciato dal peso dei pensieri e delle domande senza risposta. Nell’estate del 1989, a 71 anni, zio Brunello, come lo chiamavano i parenti più giovani, si spense solo e in silenzio, come aveva vissuto. Così, pur essendo morto assai più grande dei suoi genitori naturali, poté tornare neonato e fu sepolto insieme a loro, proprio in quella tomba che da oltre un secolo lo raffigura orfanello piangente. Orlando, Filomena e Bruno non ebbero la fortuna di invecchiare insieme come una vera famiglia, ma ora riposano abbracciati per l’eternità e la morte non avrà il potere di dividerli una seconda volta.
* Un ringraziamento va alla signora Loredana Gallizzi per il contributo *
RIPOSO, SOLDATO!
Camminavo per il viale e notai una bara poggiata su zampe di leone in ferro. Era aperta e mi avvicinai per guardarla. Un soldato con i baffi aveva gli occhi chiusi e dormiva dentro. La testa era poggiata su un cuscino color porpora e il petto gli si sollevava a ogni respiro. Mi voltai per andare via in silenzio, ma una mano mi afferrò il polso. Il soldato aveva spalancato gli occhi e allungando un braccio mi teneva stretto mentre usciva lentamente dalla bara. Mi si parò davanti. Le spalline dorate della sua grande uniforme brillavano al sole. «Non abbia paura, vorrei solo compagnia», disse. «Facciamo due passi», risposi, e assieme percorremmo il viale. All’ombra dei pioppi mi raccontò la sua storia. Quando lo riaccompagnai alla bara, si sdraiò di nuovo e giunse le mani poggiandole sul fodero argentato della sua spada. Si fece triste. «Porti i saluti ai miei genitori». «Non mancherò, tenente». «Mi chiami solo Andreino, signore». Annuii e gli sorrisi, ma le sue palpebre erano abbassate e dormiva già un sonno profondo. Una lacrima gli rigava il viso.
Domenico Guidetti era un ingegnere piemontese e fu spedito in Gallura dal Genio Civile per la progettazione della rete stradale. Conobbe Lorenza Cugiolu, appartenente a una famiglia di possidenti, e dal loro matrimonio nacque a Tempio nel 1867 il piccolo Andrea. Quando Andrea era ancora bambino, suo papà Domenico fu spostato dalla Gallura alla Nurra e la giovane famiglia Guidetti si trasferì a Sassari andando ad abitare in un’elegante casa in via Mazzini, di fronte al lato delle carceri. Andrea rimase coi genitori sino a sedici anni e nel 1883 prese il piroscafo e si presentò alla scuola militare di Roma. Dopo un paio d’anni di corso fu assegnato al 25mo Reggimento “Bergamo”, che, a discapito del nome, aveva sede alla caserma “La Marmora” in piazza Castello. Andrea poté dunque tornare a vivere a casa dai suoi. Divenne tenente di fanteria ed era destinato a una carriera ad alti livelli, ma si ammalò e nel maggio del 1889 esalò l’ultimo respiro nel suo letto di via Mazzini. I genitori affranti commissionarono a Sartorio una sontuosa statua per ricordarlo e fu una delle prime opere dell’artista in Sardegna. A giudicare dalla solennità della tomba, forse contribuì alle spese anche l’esercito. Mamma Lorenza, però, volle che suo figlio, al di là degli onori militari, rimanesse il suo bambino per l’eternità. Lei lo chiamava “Andreino” e quello fu il nome scritto affettuosamente sull’epitaffio. Se lo incontrate al cimitero monumentale, non spaventatevi, Andreino Guidetti è solo un ragazzo di 22 anni. Oggi riposa solitario perché i genitori, alcuni anni dopo la sua morte, andarono per sempre via da Sassari, non sapendo che con la loro triste storia avrebbero lasciato una delle più intense sculture di cui la città ancora dispone da oltre 130 anni.
* Un ringraziamento va agli uffici di Stato Civile di Sassari e di Tempio che mi hanno aiutato. *
LE FARFALLE DI BIANCA
"Sentii nitidamente un calpestio ritmico nel viale ovattato, come se qualcuno saltellasse sull’erba. Scorsi poco lontano una bimba sola, aveva i fiocchi che le tenevano i capelli, talmente piccola che mi stupii che la brezza non la portasse via. Muoveva le manine nell’aria concentrandosi su qualcosa che non capivo. Mi avvicinai lentamente per non spaventarla e dopo essermi poggiato ad un muretto le chiesi cosa stesse facendo. Smise di balzellare e mi rispose “Accarezzo le farfalle!”, ma io non vedevo nessuna farfalla attorno a lei. Rimasi ad osservarla, poi andai via senza interrompere il suo gioco, ma a sorpresa si mise a trotterellare e mi raggiunse. Mi arrivava poco più su del ginocchio e guardandomi seria mi chiese “Signore, io sono morta?”. Mi lasciò senza parole. Fu lei stessa a concludere il suo pensiero, dicendomi “Io non cresco mai… sono sempre piccolina!”. Fuggì via coi suoi passettini rapidi e riprese a saltellare, come se niente fosse successo, ma stavolta mi concentrai, socchiusi gli occhi, e per un istante riuscii anche io a vedere le farfalle attorno a lei. Poi svanirono, le farfalle e la piccola Bianca Maria, ed andai via."
Bianca Maria Boeri nacque a Sassari alle 10 del mattino del 2 dicembre 1907, nelle sale nobili del maestoso palazzo in via Cavour al cui piano terra oggi conosciamo la pizzeria “Il Quirinale”. Suo papà, il piemontese Adolfo Boeri, aveva già 50 anni ed era il rispettato maggiore di fanteria della Brigata Abruzzi, all’epoca di stanza alla vicina caserma di piazza Castello. Fu lui, felice ed in uniforme, a recarsi a passo svelto in Comune per registrarne la nascita, dandole anche un terzo nome, Diodata. La mamma era invece la giovane benestante Giovanna Delitala che immaginava per la bimba una vita agiata e felice. Nulla può però opporsi ai capricci del destino ed alle 5 del caldo pomeriggio di sabato 9 luglio 1910, mentre la città sbuffava, Bianca Maria respirava debolmente per l’ultima volta nel suo lettino di via Cavour, circondata dalle lacrime. Lasciava anche un fratellino appena più grande, Carlo; lui visse quasi 80 anni. Per ricordarla, il papà e la mamma vollero una statua a sua misura che ne impreziosisce la tomba al cimitero monumentale di Sassari. L’epitaffio, segnato dal tempo, ma carico d’amore, recita ancora “Sbocciavi appena e fosti dal destino reciso, nostro caro delicato fiore”. Se volete, potete trovarla lì, la bimba che da oltre un secolo ha sempre due anni e mezzo.
*** Grazie ai dipendenti dell’Anagrafe Comunale, a quelli della Conservatoria ed all’amico Alessandro Sirigu per avermi aiutato a scavare nel passato. ***
«Mamma, sei tornata!», una vocina ruppe la quiete.
Mi fermai incuriosito, nascondendomi dietro un albero.
«Mi siete mancati!», diceva una giovane donna vestita di nero ai bambini che le correvano incontro.
«Eri andata via perché ti ho fatto arrabbiare?», chiese con gli occhi lucidi una delle femminucce.
«Non dire questo! Non ero arrabbiata con voi», rispose la donna.
«Babbo, hai visto? Mamma è tornata!», un maschietto si girò incredulo verso un signore in disparte che teneva un neonato in braccio.
«È tornata…», confermò l’uomo scoppiando a piangere e la raggiunse. Le porse il neonato, che la donna col viso rigato di lacrime strinse al petto. Lo cullò.
«Abbracciatemi fortissimo!», disse lei abbassandosi. La nidiata le saltò al collo coprendola di coccole. Qualcuno le piangeva in grembo, uno le accarezzava il viso. Il signore, in ginocchio, le baciava una mano senza lasciargliela.
«Non andartene più, ti prego», ripeteva lui.
Dopo qualche minuto, si presero tutti per mano e s'incamminarono verso il fondo del viale.
«Mamma, ti devo raccontare tante cose», diceva uno.
«Anche io, anche io!», aggiungeva un’altra.
Sparirono felici tra gli alberi. Tornò il silenzio e andai via.
Carmela Baiardo nacque a Sassari nel 1885, figlia di un facoltoso imprenditore di stoffe arrivato da Castelsardo. Sposò il signor Agostino Diana, dieci anni più grande di lei, il quale aveva anch’egli un negozio di tessuti. La gioia della nutrita famiglia Diana-Baiardo cessò improvvisamente venti giorni dopo la nascita del piccolo Aldo, il sesto figlio. Infatti, la notte del 30 novembre 1919, Carmelina, come la chiamavano tutti, salutò con un filo di voce le sue creature e si spense nel letto a 34 anni. A nulla valsero gli sforzi del ginecologo Attilio Gentili che aveva cercato di curare le complicanze del parto. Aldo, causa innocente della morte, non conobbe mai la mamma. Alle dieci del mattino dell’indomani, un mesto corteo partì dal palazzo di via Turritana 15, dove la donna abitava. Il marito, la madre e la suocera commissionarono una statua per ricordarla. L’opera richiese ad Antonio Usai oltre un anno di lavoro. Carmelina giace esanime, sorretta proprio da signor Agostino, mentre Gaetano piange alla sua destra. Jolanda, Concetta e Maria le stanno a sinistra insieme a Gigi. Il piccolo Aldo è ancora al petto. La povera Carmelina non poteva sapere che la sua statua al cimitero monumentale l’avrebbe resa immortale, commuovendo generazioni di concittadini. Un secolo dopo è ancora il simbolo delle madri sassaresi, ricche o povere, che hanno dovuto lasciare i propri figli per sempre.
La piccola Ada Melis è morta a Sassari nel 1910. Aveva 4 anni. Sua mamma era signora Maddalena Carta mentre il papà era Giuseppe Melis, un importante grossista di tessuti e titolare di un esclusivo negozio di abbigliamento al corso Vittorio Emanuele, in cui ogni dipendente, compresi i garzoni, vestiva in abito. Giuseppe e Maddalena morirono anziani negli anni ‘40. Ada aveva tre fratelli e tre sorelline, lei era la più piccola. Due sorelle, Fanny e Iole, quando lei morì, avevano 12 e 10 anni. Loro però ne vissero 98 e 86, senza mai dimenticarla. Da alcuni decenni riposano al suo fianco e sono tornate bambine anche loro per riprendere a giocare da dove avevano lasciato. Se volete, potete trovare Ada al cimitero monumentale, ma non c’è bisogno di cercarla, sarà lei a farsi trovare.
*** Un ringraziamento al prof. Guido Melis che ha confermato le mie ricerche ed il cui nonno, Salvino Melis, era il fratello maggiore di Ada. ***
CONVERSANDO CON HELLEN
"Quando vado a trovarla, io ed Ellen facciamo sempre lo stesso tragitto, ma gli argomenti, accompagnati del suono ovattato dei nostri passi, non sono invece mai ripetitivi. Non vi è volta in cui lei non mi stupisca per l’apertura mentale e la sconfinata intelligenza. Agita le mani affusolate per dare maggiore enfasi alle storie che mi racconta sulle persone che ha conosciuto. Quasi mi vergogno che lei sappia della Sardegna più di me ed adoro come pronuncia il nome della nostra città con un morbido accento inglese ed il sorriso perenne. Al ritorno, percorriamo il viale a passo tranquillo e torniamo davanti alla sua tomba entro le 8 della sera, lei non si trattiene oltre quell’ora. “Alla prossima, signor Marco” mi dice; io faccio qualche passo ed attendo nell’ombra che lei si riaddormenti. Sapendomi lì che rimango ad osservarla nel suo ricercato vestito di inizio secolo, lei chiude gli occhi e non ha paura. Quando tutto tace, mi volto e vado via. “Riposa serena, Ellen”, rispondo."
Ellen nacque a Filadelfia nel 1874. Laureata e brillante, nonostante la ricchezza di famiglia, decise di dedicare la sua vita alla scoperta del mondo. Arrivata con la madre nella sperduta Sardegna nel 1906, descriveva su riviste americane le usanze dei paesini che girava da sola a cavallo, coraggiosa ed un pizzico incosciente. Colpiva tutti per il suo carattere aperto, ma era anche una delle poche donne a Sassari a possedere una pistola, che era andata a comprarsi all’armeria dal signor Giovanni Antonio Codias. A chi le chiedesse il suo lavoro, rispondeva ironicamente “l’esploratrice”. Abitava in affitto in un elegante mezzanino in via Roma e lì, nel gennaio del 1914, una persona si introdusse nelle sue stanze e le sparò nel petto. Le indagini furono superficiali. “Suicidio”, l’assurda conclusione; meglio un’americana morta che, forse, il poco segreto e benestante amante sassarese in cella. Fu sepolta al limitare del cimitero monumentale e per sotterrare con lei anche la sua vicenda fu decisa una gelida lapide senza riferimenti né date, solo il nome isolato: “ELLEN GILES”. Aveva 40 anni e la sua vita si spezzò nel silenzio della nostra città di provincia. Erano le 8 della sera.
*** Si ringraziando gli studiosi Pintus, Cugia e Merella che hanno scoperto la vicenda per primi nel libro "Il caso Giles" (foto di copertina) ***
LA TORRETTA NEL PARCO
"Uscendo, se passo per il viale centrale, a volte trovo Angelina in piedi, all’ombra di un pioppo. Non l’ho mai incontrata in posti differenti, sta sempre lì, a pochi passi dalla sua tomba, sperando di non essere vista. Si vergogna di essere una giovane donna che aspetta da sola e per lo stesso motivo ha pudore di salutarmi, quindi, ogni volta, lo faccio io per primo. Le chiedo come sta e mi informo sul suo neonato e lei mi risponde “Oggi finalmente dovrebbero portarmelo... ieri non sono venuti!” e le si illuminano gli occhi. In realtà, io so che non c’è nessuno che glielo porterà, ma non glielo dico, rispondo sempre “Davvero? Allora starà per arrivare!”. Ogni tanto le faccio anche i complimenti, perché la trovo carina, le dico “Angelina, per lei gli anni non passano mai!” ed arrossisce. La saluto e la lascio nell’ombra, col suo elegante vestito nero che la fa sembrare più grande della sua età, certo che la ritroverò."
Angelina Vai, sposata Lelli, figlia di piemontesi trasferitisi a Sassari, è morta di parto a 24 anni nel 1888. È da allora che aspetta.