domenica 11 febbraio 2024

LA MITICA VILLA DEI GLICINI IN VIALE UMBERTO. LA CASA DOVE VISSE L'INGEGNER OGGIANO A SASSARI.

Ricerca e testo di: MARCO ATZENI (fonti: Archivio Storico Comune SS e fondo "Oggiano" presso Biblioteca Universitaria di Sassari. Un ringraziamento speciale a Virgilio e Federica Mura e alla famiglia Mura-Azara)


Costeggiando viale Umberto ci si imbatte in un'antica dimora rossa la cui storia iniziò nella primavera del 1920 quando il Fosso della Noce era stato appena reso edificabile e il quarantenne Raffaello Oggiano ne acquistò 2920 mq per 4250 lire. Per la posa della prima pietra si dovette però attendere, poiché i tecnici del Comune s'erano ingarbugliati con le misurazioni e il terreno risultava spostato di 5 metri rispetto a quanto riportato sulle carte. Per mesi si dovette dunque cercare una soluzione per non invadere l'avvocato Leoni, che stava costruendo a fianco. Come se non bastasse, l'intera vallata era stata lottizzata nonostante sui terreni gravasse già un'ipoteca a favore di Francesco Ardisson che anni prima aveva prestato un patrimonio al Comune. Quell'ipoteca non era stata cancellata e Oggiano si rifiutò di dare inizio alla costruzione finché non fosse stata corretta la svista burocratica. Dopo tanto penare, i lavori edili furono eseguiti dalla ditta Demontis e Solinas e nei primi mesi del 1926, dopo anni dall'acquisto del lotto (2 di lavori), il villino poté definirsi concluso. Almeno il trasloco dei bauli fu facile, visto che Oggiano abitava in affitto a trenta metri di distanza, nell'ottocentesco palazzo di via Cagliari 2. Raffaello, essendo ingegnere, progettò il nuovo immobile autonomamente, compresa la candida balconata a vetri che rese celebre la facciata. La casa, il cui ingresso risulta sotto il livello stradale per via della pendenza del terreno, vantava posteriormente anche un enorme giardino che s'allungava in discesa sino al cuore della vallata e le cui specie arboree furono scelte e curate da Oggiano stesso.

L'ingegner Raffaello all'anagrafe era Antonio Raffaele, ma nessuno lo chiamò mai così e quando sedeva a tavola in famiglia era solo Lello. Oggiano non ebbe figli e neppure si sposò, infatti pensò il villino di viale Umberto per amore dei parenti più che per sé. Al primo piano abitavano la sorella Maria col marito Virgilio Azara e la loro figlia Pinuccia, che zio Lello ricopriva di attenzioni essendo l'unica nipote; il secondo piano era per il fratello Giuseppe e la moglie Miriam Riccio, che prendeva il tè con le amiche nella balconata a vetri; al terzo piano mamma Peppa condivideva le stanze col celibe Raffaello. Madre e figlio, finché l'anziana visse, chiacchieravano allietati della musica di Puccini, che dalla tromba delle scale si diffondeva anche negli altri appartamenti, dato che nessuno chiudeva l'uscio. Oggiano non era espansivo fisicamente, ma era dolce nei modi e sebbene per lavoro scrivesse lettere perentorie dall'ironia pungente, odiava i modi bruschi. Oltre che con la mamma, Lello si apriva solo con la sorella. Le due donne erano le uniche a comprenderne il carattere solitario e fu per quel legame viscerale che rifiutò allettanti offerte che l'avrebbero allontanato dalla Sardegna. Pur avendo raggiunto un'agiatezza invidiabile, visse senza sfarzi e possedette una vecchia automobile che aveva trasformato in un camioncino da cantiere, mentre il fratello Peppino già in gioventù alzava polveroni in viale Umberto con auto più sportive. I due maschi, diversi nell'indole e nel fisico (Raffaello era magrissimo), si bilanciavano e facevano colazione assieme.

Oggiano era nato nel 1881 a Castelsardo e crebbe giocando a nascondino nel granaio di famiglia. Si laureò nel 1905 al politecnico di Torino, che all'epoca era ancora la Regia scuola di applicazione per ingegneri ed era arrivato a Sassari nel 1910, quando il sindaco Satta Branca lo mise a capo dell'ufficio tecnico del Comune, dove si occupò della nascita dei quartieri liberty di Cappuccini e San Giuseppe, ma dopo pochi anni si licenziò per dedicarsi alla libera professione. Tra gli anni '10 e '60 Oggiano fu tra gli ingegneri più ricercati della provincia. All'alba era nello studio al sottopiano del villino, seduto a progettare in abito e cravatta con a fianco la calcolatrice meccanica a manovella. Era in grado di trovare in pochi minuti un preventivo di vent'anni prima e dal taschino gli spuntava una penna sempre pronta all'usoRisalite le scale a mezzogiorno, mangiava un boccone per poi riprendere a consumare matite sino a cena. Dedicò il poco tempo libero all'insegnamento del disegno tecnico presso l'allora istituto d'arti e mestieri (oggi le magistrali) che s'ergeva isolato nella polverosa piazza d'armi. Curiosamente, era stato lui stesso a progettare il plesso e gli alunni lo ascoltavano con devozione. Oltre a percepire un'irrisoria retribuzione pur essendone il direttore, più volte si fece carico d'anticipare le spese della scuola. Oggiano andava spesso incontro ai meno fortunati, come nel caso dell'istituto d'accoglienza della Divina Provvidenza che progettò gratuitamente.

Nella sua vita mite, Raffaello s'accontentò di un unico intoccabile svago: la vacanza alle terme di Montecatini. Il rito si ripeté fino al 1973; quell'estate in viale Umberto squillò il telefono. Era il direttore dell'hotel che chiedeva come mai dopo cinquant'anni filati non fosse ancora arrivata la prenotazione della solita stanza. Il motivo era che Raffaello s'era spento al villino poche settimane prima, in una notte di fine giugno, nel suo letto rigorosamente puntato verso nord per dormire meglio. Morì a un passo dai 92 anni, lucidissimo e pacifico come aveva vissuto. La sorella Maria lo aveva lasciato da poco e per lui la vita bastò così. Nonostante l'età, aveva trovato il tempo per ideare la casa a Stintino per i figli della nipote, il suo ultimo progetto. Purtroppo, anche per via della sua riservatezza, il nome dell'ingegner Oggiano finì presto nel dimenticatoio e solo recentemente quel timido e geniale ingegnere venuto da Castelsardo sta ottenendo il riconoscimento che merita. A parlare sono le decine di immobili da lui ideati, a cominciare proprio dal villino dove visse, che a un secolo dalla costruzione attende malinconico un futuro migliore, in memoria di una Sassari in bianco e nero che non deve crollare nell'indifferenza.


Un giovane Raffaello Oggiano come lo si incrociava a Sassari negli anni '10. Era alto 172 cm e sul mento portava una cicatrice d'infanzia. Riteneva che la professionalità dovesse emergere sia dalle capacità che dai modi e dall'aspetto. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Mura-Azara).

Allo scoppio della prima guerra mondiale, Oggiano servì la patria per 3 anni come ufficiale di artiglieria pesante. Fino al 1918 le sue competenze ingegneristiche furono destinate ai servizi tecnici dell’aviazione e alla creazione di campi scuola per idrovolanti presso il lago di Bolsena, del Trasimeno e di Orbetello. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Mura-Azara).

Nel progetto originale, la balconata che caratterizza la facciata del villino di viale Umberto è evidenziata in rosso. Inizialmente, Oggiano non aveva previsto quel particolare architettonico, lo aggiunse nel 1925, prima della conclusione, e dovette presentare una modifica alla concessione edilizia. Tutti i suoi progetti erano distinguibili per il vezzo della carta blu e per la firma raffinata. (concessione arch.st.com. SS s.5 b.4 f.3)

La facciata di villa Oggiano come appare ai nostri giorni. Nessuno sa che, sotto la prima pietra, Raffaello fece cementare un foglio che recita "Posa della prima pietra della casetta familiare nel fosso della noce, che verrà trasformato in ridenti giardini in piano da me redatto quale ex-capo dell'ufficio tecnico. Questa dimora familiare comincia ad erigersi in momenti di fortissima crisi succeduta alla guerra mondiale. Sassari, 5 maggio 1924".

Preciso come d'abitudine, sopra il portone d'ingresso nell'atrio decorato, Oggiano fece scrivere in numeri romani l'anno di edificazione del villino (1925). La dicitura recita AN. DOM. MCMXXV

I fratelli Oggiano in vacanza nell'amata Montecatini nel 1964. Raffaello, a sinistra, era brillante anche a 83 anni. A destra Giuseppe, per tutti Peppino, più piccolo di 16 anni. Peppino si laureò nel 1923, anch'egli in ingegneria a Torino, a differenza di Raffaello si sposò (con Miriam Riccio, pioniera del giornalismo femminile sardo), ma neppure lui ebbe figli. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Mura-Azara).

Da Cappuccini a San Giuseppe, da Porcellana alle Conce, i progetti partoriti dalla mente di Oggiano sono ovunque a Sassari. Per citare i più noti: Villa Farris, villa Falchi, casa Azzena-Mossa, casa Bozzo, casa Deliperi, l'istituto delle magistrali, la facciata della sede dell'Università, le case dei mutilati, le cliniche universitarie, l'istituto della Divina Provvidenza, il quartiere del Sacro Cuore. Fece persino in tempo, a 78 anni, a ideare uno dei primi palazzi moderni, quello a 7 piani di viale Dante 36. Progettò anche cimiteri, campanili, municipi, fontane, scuole, cappelle e mattatoi in tutta la provincia (Castelsardo, Sorso, Thiesi, Sedini, La Maddalena, Nulvi, Giave, Porto Torres, Gavoi e altri). Da fine anni '20 condivise lo studio al sottopiano del villino col fratello Peppino, con il quale si occupò anche delle bonifiche della Nurra. (in foto le carte intestate di Raffaello, prima da solo al vecchio indirizzo poi in società).

L'ormai anziana madre di Raffaello, Giuseppa, posa con l'unica nipote Pinuccia (figlia di Maria Oggiano, sorella di Raffaello). Dai tre fratelli Oggiano (Raffaello, Peppino e Maria) discese solo lei. Pinuccia si sposerà con Felice Mura e avrà sei figli. Leggenda narra che il famoso glicine che circonda il villino abbia iniziato a fiorire al matrimonio di Pinuccia, per celebrare il fatto che la famiglia Oggiano non si sarebbe così estinta. Anche la nuova famigliola abitò nell'immobile di zio Lello in viale Umberto. La foto fu scattata nell'estate del 1933. (foto per gentile concessione della famiglia Mura-Azara)

Pinuccia (figlia della sorella di Oggiano) ebbe sei figli e Raffaello era il loro prozio (fratello di nonna). Il cognome di quel ramo era Mura-Azara. La foto fu scattata al villino nel 1955 (viale Umberto alle spalle) in occasione della cresima della piccola Mimma Mura (in abito bianco). Gli altri 3 bambini sono: Anna, Virgilio (sarà preside della facoltà di scienze politiche) e Gianfelice Mura. Pinuccia è la signora al centro (madre dei bimbi e nipote di Oggiano. La ragazza della foto precedente), con a fianco il marito Felice Mura. La bimbina con le treccine, di fianco al sempre gioviale Raffaello, è la scrittrice Bianca Pitzorno a 12 anni, presente poiché sua mamma e sua zia (le signore col cappello) erano amiche dei Mura. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Pitzorno).

Alla morte, i pronipoti Mura-Azara (sopra citati) non fecero mancare affetto e gratitudine al generoso zio Lello che a loro lasciò anche il villino (dove erano nati e vissuti). Per parte di madre, il ramo Mura-Azara è l'unico collegamento familiare (indiretto) con Raffaello Oggiano che, ricordiamo, non ebbe figli. L'ingegnere riposa nella tomba di famiglia a Castelsardo insieme agli altri parenti. (necrologio Nuova Sardegna)

Francesco Demontis fu il capomastro che con la sua impresa edile e sotto le direttive di Oggiano realizzò il villino di viale Umberto. I due lavorarono assieme in diversi immobili e si stimavano reciprocamente, sebbene l'ingegnere non mancasse di richiamare continuamente il rispetto dei tempi, cui teneva molto. (foto per gentile concessione del signor Franco Demontis)

Raffaello Oggiano nell'amata vacanza di Montecatini. La prima foto è stata scattata nel 1926 all'età di 45 anni , la seconda nel 1968 a 87 anni. Il punto dei due scatti è quasi lo stesso a distanza di mezzo secolo. (foto per gentile concessione della famiglia Mura-Azara)


*** Questa ricerca storica ha richiesto tanto lavoro. È vietata la riproduzione di testo/informazioni e delle immagini (concesse in esclusiva). Per informazioni scrivere a sassariantica@gmail.com - Grazie per la lettura. ***

domenica 28 maggio 2023

L'AFFASCINANTE VILLINO CROVETTI A SASSARI. STORIA DI UN INGEGNERE EMILIANO E DELLA SUA FAMIGLIA.

Ricerca e testo di: Marco Atzeni (fonti: Archivio Storico Comune SS, Conservatoria dei Registri Immobiliari SS, quotidiani "La Nuova Sardegna" e "L'Isola" . Un ringraziamento particolare alla signora Laura Piras in Crovetti e a sua figlia Angela).

Tre giorni dopo il Natale 1915, i nobili fratelli Diego ed Efisio Cugia di Sant’Orsola, che vivevano a Roma ed erano a Sassari per le feste in famiglia, si recarono per una vendita dal notaio Maniga. Qualcuno aveva intuito che i poderi che i due possedevano sul colle dei Cappuccini erano ideali per l’allargamento della città. Quel qualcuno si chiamava Teofilo Crovetti che per 1500 lire comprò da loro un terreno edificabile all'apice della deserta viale Caprera. Signor Teofilo, nell'arco d'un paio d'anni e su progetto del geometra Calvia, fece così erigere un affascinante villino gotico dai toni rosati, originale proprio come il suo nome di battesimo, che a Sassari nessun altro aveva. La zona residenziale era però ancora un abbozzo e il cinquantenne Crovetti si dovette impegnare non poco. Per prima cosa, non esistendo abitazioni limitrofe, s'era dovuto fare carico della posa delle condutture di acqua e scarichi, che dovette allacciare dalla casa Bozzo, che era ben 300 metri più a valle. Sedette poi allo scrittoio per proporre miglioramenti urbanistici e dopo uno sfiancante carteggio con l'Amministrazione, si arrivò nei primi anni '20 a ridefinire l'intero isolato attorno al villino. Infatti, si aprirono da zero via Alagon e la retrostante via Principessa Iolanda che non sarebbe nata, se non fosse stato per un'intuizione di Crovetti che rilevò una fetta di terreno comunale contornante la sua proprietà, rendendone così lineari i confini e dando il via all'ordinata lottizzazione anche del Fosso della Noce.

Il vulcanico signor Teofilo, orfano di mamma sin da piccolo, era nato nel 1866 Pievepelago, in provincia di Modena, e agli albori del '900 era approdato casualmente a Sassari per lavoro. Se infatti discorreva con scioltezza di vie da aprirsi o nuovi quartieri era perché possedeva un'impresa edile specializzata in costruzioni civili, stradali e idrauliche. Un appaltatore, come si chiamavano all'epoca, la cui scaltrezza gli aveva procurato un'agiatezza invidiabile, mentre la cordialità gli accattivava il rispetto dei conoscenti, che incrociandolo gli dicevano "Salve, dottore!". Nel 1919 Teofilo scommesse pure sulla corsa all'oro, ottenendo un permesso di ricerca nella zona di Niu Espis, vicino Santadi, ma capì presto che in Sardegna oro non ce n'è, e liquidò la società mineraria che aveva costituito di proposito. Crovetti era sposato con la raffinata signora Lucia Galassini e con lei ebbe due figli, NunziaGiacomo, nati anche loro a Pievepelago nel 1893 e nel 1897. Prima della decisione di rimanere in città e dell'edificazione del villino di Cappuccini, i Crovetti abitarono in affitto in via Cavour. Teofilo, tra l'altro, era arrivato nell'isola con un amico fraterno, il signor Augusto Dori, col quale condivideva sia l'accento emiliano che il baffo curato, e che aveva anch'egli un'impresa edile. Non a caso, l'unica figlia di Augusto, Angela Dori, andrà in sposa a Giacomo, il figlio di Teofilo. I due giovani innamorati, del resto, si conoscevano fin da quando lei, persa la madre, veniva ospitata a casa Crovetti. La sorella di Giacomo, Nunzia, convolò invece a nozze con l'avvocato Riccardo Marrosu che divenne il legale di fiducia della famiglia.

Devoto ai cari, alla nascita dei primi nipotini, affinché rimanessero uniti anche da adulti, Teofilo costruì lungo il viale Caprera altre due grandi case, di fianco al villino principale. Quelle ulteriori abitazioni furono terminate a metà anni '20 e elevarono il valore del suo patrimonio immobiliare a 300mila lire, i sassaresi scherzavano dicendo che l'apice di viale Caprera, con quelle tre case in fila, lo si poteva ormai chiamare "viale Crovetti". Purtroppo, nel caldo giugno 1928, il cuore di nonno Teofilo si fermò però improvvisamente. Morì pieno d'idee poco più che sessantenne. Fu una nefasta sorpresa e la città accorse in massa ai funerali, col cappello al petto presenziarono anche i suoi manovali, che commossi non gli fecero mancare la gratitudine. Essendo Teofilo il primo a spegnersi lontano dalla natìa Pievepelago, Giacomo e Nunzia si recarono in Comune per acquisire un'area cimiteriale sulla quale erigere una cappella di famiglia. Il costo della concessione perpetua di 12 metri quadri fu di 7400 lire. Nel 1931 nacque così al monumentale di Sassari la storica cappelletta in trachite dei Crovetti. Tra l'altro, poiché la concessione era esclusivamente per gli appartenenti diretti della famiglia, si dovette concordare in anticipo che potesse poi esservi sepolto anche Augusto Dori, il già citato suocero di Giacomo.

Giacomo Crovetti, che si era appositamente laureato in ingegneria civile a Roma nel 1921, ereditò l'azienda paterna, traghettandola con ulteriore successo per decenni, e il cognome Crovetti continuò così a rimanere conosciuto e rispettato nel settore edilizio, ma non solo. Giacomo, a differenza di Teofilo, si impegnò infatti anche in politica, ricoprendo la carica di podestà (sindaco d'epoca fascista) dal 1939 al 1943 e fu lui a firmare gli "oscuramenti" per evitare che la città restasse illuminata in periodo di bombardamenti notturni. L'ingegner Giacomo, doppiopetto gessato e occhi cerulei, ereditò da Teofilo anche l'esclusivo villino di Cappuccini, in cui al piano terreno mantenne lo studio creato dal padre, a tutt'oggi intatto. Alle pareti, oltre ai ritratti dei genitori, Giacomo appese alcuni suoi dipinti, in quanto pittore provetto. Con lui e la moglie Angela, donna dai lineamenti morbidi ma dal polso fermo e che nel dopoguerra scrisse racconti brevi per il Corrierino della Domenica, crebbero in viale Caprera anche i loro figli. Proprio durante la guerra Giacomo progettò un rifugio antiaereo sotto il villino all'interno del quale i Crovetti ospitavano i vicini al suono delle sirene. Fu sempre lui, tra le tre case già costruite in fila dal padre, a farne terminare anche una quarta e inoltre a far poi erigere i palazzi moderni che si affacciano su via Principessa Iolanda, dietro il villino. Così facendo, completò l'edificazione di tutto il lotto originario, acquistato da Teofilo quando lui era ancora ragazzo. Proprio nel villino, Giacomo Crovetti morì serenamente ormai ottuagenario, nel 1980, e, come per Teofilo cinquant'anni prima, fu grande la partecipazione per la scomparsa di uno degli ultimi protagonisti della Sassari sviluppatasi nella bella époque d'inizio secolo.

Sebbene pochissimi ne portino l’originario cognome, dopo Teofilo e Giacomo i discendenti Crovetti sono arrivati alla sesta generazione e l’affascinante villino rosa, ancora abitato dalla famiglia e perfettamente conservato, è ormai inglobato nel moderno tessuto urbano. Sono lontani gli anni in cui l'immobile svettava solitario come una fortezza, ma il signor Teofilo da Pievepelago, anche dal cielo, continua a sorridere compiaciuto, perché lui aveva visualizzato tutto, prima di tutti, oltre un secolo fa.


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Il distinto Teofilo Crovetti in una foto databile intorno al 1920. Costruì i tre villini in viale Caprera e diede impulso allo sviluppo della parte alta di Cappuccini. Sposato con Lucia Galassini, ebbe due figli: Nunzia e Giacomo. Nella famiglia Crovetti si alternarono i nomi Giacomo e Teofilo, infatti due suoi nipoti, cioè sia un figlio del figlio che un figlio della figlia, si chiamarono come lui. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Crovetti)

Teofilo Crovetti arrivò in Sardegna con l'amico Augusto Dori, anch'egli impresario di Pievepelago titolare col fratello Celso della "Dori Costruzioni", attiva principalmente nel sud Sardegna. Augusto sposò la sfortunata signora Maria Stefanini che morì giovane, lasciandolo vedovo. L'unica figlia di Augusto, Angela Dori, andrà in sposa al figlio di Teofilo, Giacomo, dando così origine al ramo Crovetti-Dori(foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Crovetti)

L'ingegner Giacomo Crovetti, figlio di Teofilo, abitò nel villino di Cappuccini con la moglie Angela Dori e i figli Lucio, Teofilo junior, Antonello e Maria Augusta. Ereditò l'azienda paterna e accrebbe il patrimonio con investimenti immobiliari. Fu tra i notabili della città nei decenni tra il 1930 e '70(foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Crovetti)

In questo bel dipinto del Paglietti è ritratto un fiero Giacomo Crovetti in cui si nota l'aspetto curato che caratterizzò sia lui che il padre Teofilo. (per gentile esclusiva concessione della famiglia Crovetti)

L'Impresa Costruzioni Teofilo Crovetti (in foto timbro originale e pubblicità), tra i tanti appalti statali, nel 1902 si occupò del tronco stradale tra Siniscola e Terranova, nel 1905 della litoranea da Sassari a Castelsardo, nel 1909 della Cagliari-Muravera, nel 1911 del tratto tra Suni e Villanova Monteleone, nel 1912 delle infrastrutture sul fiume Coghinas, nel 1927 della strada di bonifica verso il ponte romano di Porto Torres, nel 1912 della fognatura del manicomio di Sassari. Teofilo fu anche rappresentante provinciale degli impresari e tra i soci fondatori della Banca Italiana Impresari e Costruttori, costituita a Milano nel 1910. L'azienda di famiglia fu ereditata da Giacomo (pubblicità di fine anni '20 in foto) e a sua volta da Lucio e Teofilo junior, figli di Giacomo.

Una bella foto di gruppo in cui compaiono al centro Giacomo Crovetti e la moglie Angela Dori. Da sinistra in piedi: il cugino di Angela Dori con la moglie, segue Teofilo Crovetti junior (laureato in agraria, lavorò in azienda col padre Giacomo), Teofilo Marrosu (figlio di Nunzia, sorella di Giacomo, fu avvocato), Mario Marrosu (figlio di Nunzia, sorella di Giacomo, fu prefetto a Trieste, Salerno e altre città), il canonico Murgia (zio del cognato di Giacomo), la mitica Lucia Galassini (moglie di Teofilo Crovetti e madre di Giacomo). In basso da sinistra: Lucio Crovetti (laureato in ingegneria, lavorò in azienda col padre Giacomo), Maria Augusta Crovetti (laureata in farmacia, andò in sposa al noto rettore universitario Milella), Antonello Crovetti (laureato in agraria, fu professore di entomologia all'Università di Pisa, di cui fu anche Preside), ultime a destra la moglie di Mario Marrosu con la figlioletta Graziella Marrosu. Lo scatto è stato fatto nel salone del villino di Cappuccini nel 1947, in occasione delle nozze d'argento di Giacomo e Angela. (foto gentilmente concessa in esclusiva dalla famiglia Crovetti)

In questo scatto di fine anni '20 si ammira il colle dei Cappuccini come appariva guardandolo dall'odierna parte alta di viale Umberto. Il villino Crovetti è l'immobile all'estrema destra, raggiungibile dopo aver percorso tutta la salita del terrapieno di viale Trento. Spostandosi verso il centro dello scatto, si nota una delle altre due case che Teofilo costruì per i familiari lungo il viale Caprera. È simile alla villa principale, ma appena più piccola.

I componenti storici della famiglia Crovetti riposano nella cappella privata al cimitero monumentale di Sassari, costruita nei primi anni '30 con i materiali e la linearità razionalista del ventennio fascista. Al suo interno ci sono il capostipite Teofilo Crovetti, primo a esservi sepolto, sua moglie Lucia Galassini, i loro figli Giacomo e Nunzia e, a loro volta, alcuni dei loro figli (e nipoti di Teofilo). Angela Dori, moglie di Giacomo, è sepolta a Pievepelago, mentre suo padre Augusto è invece nella cappella di Sassari.

Villa Crovetti come appariva a metà anni '80. Si intravede al suo fianco anche una delle altre tre case costruite quasi a schiera e appartenute alla famiglia. Si noti, tra l'altro, che all'epoca dello scatto il senso di marcia in viale Caprera era inverso, le auto scendevano al posto di salire.

Una delle numerose lettere scritte a mano da Teofilo Crovetti per convincere il Comune a cedergli una parte di terreno attigua alla sua proprietà. Alla fine l'area gli venne ceduta e fu così perfezionata anche l'apertura di via Principessa Iolanda. (arch. storico com. SS, carteggio mod. b. 60 f. 7)





*** Questa ricerca storica ha richiesto tanto lavoroPer scopi divulgativi si può riprodurne in parte il testo, citando obbligatoriamente me ed il mio blog come fonte (anche qualora ne cambiassi le parole utilizzandone però le informazioni). Per scopi commerciali (libri, pubblicazioni etc.) è necessario chiedermi preventivamente il permesso a sassariantica@gmail.com - Grazie per la lettura. ***


domenica 15 gennaio 2023

LA MERAVIGLIOSA VILLA FARRIS A SASSARI. LA SUA STORIA DI ENIGMI E CURIOSITÀ.

 Ricerca storica e testo di MARCO ATZENI
(fonti documentali: Biblioteca Universitaria SS, Conservatoria Registri Immobiliari SS, Archivio Storico Comune SS, Stato Civile SS e Usini, Camera Commercio SS, quotidiani "La Nuova Sardegna" e "L'Isola").


All'apice di viale Trieste, a pochi passi dal piazzale dei Cappuccini, svetta un'elegante villa liberty. Fu fatta erigere a partire dal 1910 dal facoltoso mercante Giosuè Farris, la cui storia iniziò a Usini, un paio d'ore di trotto da Sassari, dove nacque nel dicembre del 1869 nel rione di Sa Rughe. Fu un'infanzia non semplice, per Giosuè, che aveva scoperto il dolore già nel 1880 quando undicenne perse la mamma Maria Zoseppa, che l'aveva cresciuto con amore. Suo babbo Giovanni portò poi all'altare una seconda donna e fece altri figli. Fu proprio osservando le scelte paterne che Farris intuì che il denaro germogliava sull'albero del commercio. Babbo Zuanne, infatti, dopo aver negoziato cavalli con discreto profitto, aveva anche aperto una merceria in paese e consentito alla famiglia una vita dignitosa rispetto agli standard dell'epoca. Giosuè aveva ricevuto l'educazione scolastica di base, leggeva e scriveva perfettamente, e intuito però che Usini era troppo piccolo, prese la diligenza per la "grande" Sassari e si mise in proprio. Pochi anni dopo, ai primi del '900 e non ancora quarantenne, ne era già uno dei negozianti di successo e le persone si mettevano in fila per acquistare cappelli, bastoni, giocattoli o camicie nella sua fornita "Chincaglieria Farris" che aveva aperto in corso Vittorio Emanuele. Intanto, nel 1905, aveva anche sposato la figlia di un vetturino, la signorina sassarese Maria Porcella, che aveva diciassette anni meno di lui, e dal matrimonio arrivarono Lina e Manlio.

Fu con queste premesse che, quando si lottizzarono le campagne di Cappuccini, a Farris l'occasione parve perfetta: una villa sul colle alle porte della città avrebbe rappresentato il nido per la sua benestante famigliola, destinata ad allargarsi. Giosuè domandò la concessione di due terreni edificabili attigui per un totale di 1974 mq al costo di 2961 lire e affidò all'ingegner Raffaello Oggiano la progettazione della casa, mentre i lavori furono commissionati all'impresa di Gianuario FundoniNel gennaio 1911, quando l'operazione immobiliare era in fermento, arrivò però il ferale gelo: la giovane Maria, focolare di casa Farris, morì appena ventitreenne dopo breve malattia, lasciando Giosuè vedovo e Lina e Manlio senza mamma. L'idea della villa perse bruscamente senso, eppure Farris andò avanti, intestando per migliore auspicio la proprietà del suolo proprio ai due orfanelli, che avevano quattro e due anni.

Il Comune, però, non accettava che in un terreno tanto ampio Giosuè costruisse una sola abitazione, creando disomogeneità con i vicini, che non godevano di un giardino grande quanto il suo. Ci volle una deliberazione che ammise che il vasto terreno era in tal pendenza da renderci impossibile l'edificazione di più d'una casa. Il dislivello, infatti, obbligò a un terrazzamento con una bianca scalinata che ancora oggi collega monte e valle del giardino. Al fatto che le cose fossero letteralmente partite "in salita", s'aggiunse che lo scrupoloso ingegner Oggiano rilevò esagerazioni nei costi edili e le riferì a Farris che, sbattendo i pugni sul tavolo, trascinò il costruttore Fundoni in tribunale. Fu necessario l'intervento di due ingegneri esterni per giudicare le cifre addebitate. Il Fundoni denunciò a sua volta sia Farris che Oggiano per diffamazione, ma senza successo. Alla fine, dopo tanto travaglio, signor Farris vantava una villa che lo rese celebre in città, con il suo portico, due piani fuori terra, mansarda, seminterrato e un'affascinante torretta dalla quale all'epoca, non essendo edificato il Monte Rosello, si godeva della vista sino all'Asinara. Il tutto immerso in oltre 1000mq di verde e con la protezione di una raffinata cancellata nella quale infilavano il naso i meno fortunati, che venivano ad ammirare la proprietà con la bocca spalancata.

Giosuè, in realtà, possedeva anche un intero palazzo storico al Corso, sopra il suo negozio, e gli era più agevole dormire lì che sul colle di campagna. Inoltre, i due figli vennero presto mandati lontano dalla Sardegna per studiare, mentre lui si risposò con Gioia ReifCosì, dopo averla poco abitata, negli anni '20 la villa fu data in affitto. Per giunta, il destino tornò a chieder conto e l'adorata Lina, che frequentava l'esclusivo collegio delle suore Marcelline di Genova, morì tra le braccia di papà Giosuè all'età di sedici anni nel 1923 e questo ennesimo tragico fatto lo spinse a consegnare le chiavi del negozio ai due volenterosi fratellastri di vent'anni più giovani di lui, Aurelio e Pietro, cui lasciò la gestione degli affari. I due portarono poi avanti l'attività per quasi mezzo secolo, sino agli anni '70, abitarono proprio in viale Caprera a pochi passi dalla villa, e conservarono la memoria di Giosuè, con cui ebbero un rapporto d'affetto straordinario. Proprio Giosuè, intanto, aveva fatto le valige e s'era trasferito a Torino con la seconda moglie e il figlio rimastogli e da lì continuò a curare altri suoi impegni. Nell'estate del '30scrisse un telegramma all'ingegner Oggiano, con cui era rimasto in buoni rapporti, dandogli l'incarico di trovare finalmente un acquirente per il suo "villino ai Cappuccini". Prezzo centotrentamila lire con caparra obbligatoria. Giosuè attendeva tra le villeggiature a Champorcher e i bagni termali a Montecatini, ma da Sassari, nonostante gli sforzi d'intermediazione di Oggiano, non arrivavano proposte d'acquisto. Ciò che Farris non poteva sapere è che non avrebbe mai firmato un contratto di vendita. All'alba del primo giugno 1931, infatti, sentì un macigno al cuore e si spense a sessantuno anni per angina pectoris sul letto torinese nella centrale via Giacosa.

Fu dunque il ventenne Manlio Farris, unico erede di tutto il patrimonio, a cedere la villa per cui il padre aveva penato e di cui la famiglia aveva poco goduto. Ciò accadde solo un paio di mesi dopo la morte di Giosuè. E Manlio dovette arrivare appositamente da Torino con la matrigna, con cui non ebbe un rapporto idilliaco, per recarsi nello studio del notaio Lay in via Cagliari, dove ad acquistare fu una vedova, donna Annangela Bichiri da Bonorva, che poi abitò la villa in solitudine per decenni, con l'unico aiuto di una domestica e un giardiniere. Dopo oltre un secolo, però, quell'immobile dalle forme aggraziate che veglia su Cappuccini rimane ancora per tutti "Villa Farris" e guardandolo con gli occhi della fantasia vedrete signor Giosuè che ci passeggia davanti con aria compiaciuta, se vorrete potreste ringraziarlo per averla fatta costruire, sebbene neppure lui, forse, ne abbia mai capito il motivo.

Una meravigliosa foto inedita di villa Farris in ultimazione. La foto fu scattata proprio dall'ingegner Oggiano dalle finestre del palazzo di fronte, in viale Mameli. La prima foto in alto fu invece scattata a lavori ultimati e ne venne fatta una cartolina (concessioni esclusive da Biblioteca Universitaria di Sassari, fondo R. Oggiano, cart. 038-1, riproduzione vietata)

Una veduta (da viale San Francesco) del cantiere quasi terminato. Si noti, oltre alla maestosità, il terrazzamento realizzato per addolcire il dislivello del terreno. L'angolo in primo piano a valle della proprietà è oggi occupato da un palazzone sorto sull'ampia fetta di giardino ceduta a un'impresa edile a fine anni '60 (foto dal web)

La facciata posteriore di villa Farris come si presentava a chi scendeva dal piazzale dei Cappuccini negli anni '20. Da decenni girano due dicerie: il presunto suicidio dell'originario proprietario e che fosse stata venduta per debiti di gioco contratti al Circolo Sassarese. Come esposto nella ricerca, lo svolgersi dei fatti nega tali leggende. (foto dal web)

Il prospetto frontale del progetto originale di villa Farris, predisposto nel 1910. All'epoca il talentuoso ingegner Oggiano aveva trent'anni ed era laureato da appena 5. Oggiano e Farris, uomini sensibili, rimasero in ottimi rapporti per vent'anni e alcune estati si incontrarono a Montecatini. (concessione esclusiva da Biblioteca Universitaria di Sassari, fondo R. Oggiano, cart. 038-1)

Il frontespizio dell'atto con cui il Comune di Sassari cedette a Giosué Farris i due lotti edificabili a Cappuccini. Farris firmò come rappresentante dei due figlioletti Lina e Manlio a cui intestò la proprietà del terreno (concessione Archivio Storico Comune di Sassari, contratti, b. 6, f. 427)

Nella piccola tomba di famiglia al cimitero monumentale di Sassari riposano: Lina, figlia di Giosuè, morta adolescente e la cui salma arrivò da Genova, Maria Porcella, prima moglieTeresa Maria Giuseppa, due sorellastre di Giosuè, infine il secondo figlio, Manlio, che visse di rendita e morì per ultimo negli anni '70. A mancare è misteriosamente proprio Giosuè Farris la cui salma risulta a Torino, ma non è registrata nel relativo cimitero monumentale . Le antiche statue sono (presumibilmente) di Usai, raffigurano Lina e Manlio da bambini.



In oltre un secolo, vi sono stati soltanto tre proprietari della villa, e Farris, con i suoi venti anni scarsi, è stato paradossalmente quello a tenerla meno. Nell'ottobre 2022, per la prima volta dall'edificazione, sono partiti i lavori di recupero di tetto e facciate, eseguiti dalla ditta GPM Restauri di Pietro Mele da Pozzomaggiore, specializzata in risanamenti artistici. Il lavoro è stato completato nella tarda primavera del 2023. (nelle foto il prima e dopo).






*** Questa ricerca storica ha richiesto due anni di lavoroPer scopi divulgativi si può riprodurne in parte il testo, citando obbligatoriamente me ed il mio blog come fonte (anche qualora ne cambiassi le parole utilizzandone però le informazioni). Per scopi commerciali (libri, pubblicazioni etc.) è necessario chiedermi preventivamente il permesso a sassariantica@gmail.com - Grazie per la lettura. ***





domenica 4 dicembre 2022

IL CADAVERINO DI CORSO VICO E L'ATROCE MISTERO DEL MARZO 1910.

Testo e ricerca storica di Marco Atzeni (fonti documentali: Archivio di Stato SS e Biblioteca Comunale SS).


Erano le sette e trenta del primo marzo 1910 e tra uno sbadiglio e l'altro il lampionaio Salvatore Piras percorreva corso Vico per andare al lavoro. Mentre transitava, notò tre ragazzetti affacciati alla lunga ringhiera che all'epoca divideva il viale dai terreni annessi al gasometro, proprio dove lui si stava recando. Qualche metro più giù, in mezzo alle erbacce, sembrava infatti giacere un fagotto bianco inzuppato di sangue. Forse qualcuno s'era divertito a torturare un cagnolino e a disfarsene. Signor Salvatore scavalcò, andò a controllare e aperto il fagotto gli si bloccò il respiro. Era il cadaverino tumefatto di un neonato, con il cordone ombelicale attaccato. Il dottor Giomaria Sotgia fu incaricato dell'autopsia e allargando le braccia confermò agli inquirenti che quella morte non aveva niente di naturale. Il bebè aveva poche ore e profonde contusioni alla testolina e al collo ne avevano causato il decesso.

Chi, e perché, aveva ucciso un innocente appena venuto alla luce? Il sessantenne commissario Nunzio Macaluso sguinzagliò i suoi collaboratori nelle vie circostanti la zona del ritrovamento. Dopo alcuni giorni, mentre qualcuno sosteneva che girasse un mostro che strappava i neonati dal ventre delle madri, gli agenti in borghese si recarono di buona mattina in corso Trinità e, imboccato il vicolo chiuso B, picchiettarono alla porta di un misero magazzino adattato ad abitazione. Aprì una ventenne di nome Giuseppina, che sbiancando ammise d'aver partorito da poco. Gli agenti la condussero in caserma e le chiesero maggiori spiegazioni. Lei tremolante raccontò di sbarcare il lunario come donna di servizio in via Carmelo, nella dimora di signora Schiappacasse. La padrona di casa riceveva le visite d'un giovane nipote odontoiatra, il cui nome era Antonino, e questi aveva posato gli occhi proprio sulla domestica Giuseppina. La ragazza aveva accettato l'invito dell'uomo per una serie di controlli ai denti e quegli abboccamenti avevano portato scottante risultato, poiché lei era rimasta incinta. Ogni illusione della povera domestica svanì però presto, poiché Antonino, appresa la notizia, se l'era data a gambe.

Giuseppina, sola e umiliata, aveva così nascosto la gravidanza comprimendosi il ventre con gonnelle strette e dolorose, finché, nove mesi dopo, il giorno in cui le fitte si fecero fortissime, non era andata a lavorare e in quel sottano del vicolo chiuso B, dove viveva in affitto con i genitori, aveva partorito con le lacrime agli occhi il suo neonato illegittimo. Gli agenti, immersi nel fumo di sigaro, la pressarono sulla fine che avesse fatto quella creaturina e lei crollò: il piccolo era stato immediatamente colpito al capo e soffocato. Il commissario però non credeva che una donna giovanissima, per giunta stravolta dal parto, avesse avuto il fegato di macchiarsi d'un tal gesto e nella vicenda sbucò il personaggio finale: la mamma di lei, signora Mariantonia, che aveva contribuito in modo decisivo all'uccisione di quel nipotino indesiderato. La donna, arrestata in un oliveto a Piandanna, dove lavorava alla giornata, confermò l'accaduto confessando inoltre d'esser stata lei ad avvolgere il corpicino in un lenzuolo e d'averlo nascosto sotto lo scialle nel breve tragitto a piedi da corso Trinità sino al terreno del gasometro, dove l'aveva gettato a notte fonda per poi tornarsene a dormire.

Il caso era chiuso: Mariantonia e sua figlia Giuseppina, il cui secondo nome era Anatolia, vennero condotte in via Roma e rinchiuse in una cella del braccio femminile di san Sebastiano con l'accusa di infanticidio e occultamento di cadavere. Rimasero agli arresti per tutta l'estate e a Novembre si svolse il processo nelle eleganti sale della Corte d'Assise. Le imputate, però, rispetto al momento dell'arresto, erano ora assistite da diversi avvocatidi cui ben tre a tutela di Giuseppina, tra i quali spiccava un trentenne Lare Marghinotti a inizio carriera (gli altri erano Piero Campus e Giuseppe Abozzi), mentre Giovanni Zirulia assisteva Mariantonia. La difesa fu prestata pro bono poiché le accusate vivevano in miseria ed erano analfabete. Le due ritrattarono le confessioni, dichiarando che il parto era avvenuto in piedi, che il neonato era morto sbattendo la testa sul pavimento perché Giuseppina era svenuta con lui ancora attaccato e i segni sul collo erano dovuti al fatto che Mariantonia aveva provato a rianimarlo. Sorvolarono però sul perché l'avessero dunque gettato via. L'avvocato Marghinotti la fece breve, invocando l'assoluzione per infermità mentale. La corte si riunì e il giudice Giovanni Antonio Sanna Camerada si alzò in piedi per leggere con voce stentorea la sentenza che sanciva che Giuseppina e Mariantonia erano da rimettere in libertà perché ritenute non colpevoli. Dai banchi del pubblico (rientrato solo per la lettura, visto che il dibattimento si svolse a porte chiuse perché pericoloso per la morale) scrosciarono gli applausi dei fratelli e delle sorelle di Giuseppina e del padre-marito delle assolte, che si chiamava Giovanni Antonio. La famiglia si abbracciò, se ne tornò a pranzare al misero magazzino del vicolo chiuso B e Sassari dimenticò in fretta il tutto.

Quella sentenza vecchia d'un secolo, oggi risulta assurda, ma è necessaria una chiave di lettura. Una giovane che partoriva un figlio da una relazione fugace veniva posta ai margini della società assieme al suo bambino e nessun altro uomo avrebbe mai accettato di sposare un'impura facendosi carico del figlio di nessuno. Per tal motivo, gli orfanotrofi a Sassari traboccavano di neonati illegittimi e a volte alcune donne lavavano la vergogna con la collaborazione di un familiare, organizzando un infanticidio salva onore che persino la legge trovava la via di scusare. Pertanto, per quanto riguarda Giuseppina, l'epilogo della vicenda narra che un pugno d'anni dopo poté sposarsi con un uomo di nome Edoardo e con lui fece famiglia. Chissà quante volte, però, nel silenzio della notte, le tornò alla mente il vagito del suo primo neonato, morto senza nome, che aveva dovuto sacrificare per evitargli una vita più misera di quella che lei già aveva.

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Il quotidiano "La Nuova Sardegna" seguì l'infanticidio con alcuni trafiletti che tenevano aggiornata la popolazione sassarese sull'evolversi delle indagini. All'epoca non si risparmiavano dettagli macabri che oggi verrebbero ritenuti di cattivo gusto. (fonte: Biblioteca Comunale SS).

Il frontespizio del corposo verbale del processo a carico di Giuseppina S. e Mariantonia M. L'accusa era di infanticidio "mediante soffocazione e percosse" per "salvare l'onore". Si tenga in considerazione che in questa ricerca i cognomi delle persone coinvolte non sono riportati per rispetto. (fonte: Archivio di Stato di SS, Corte d'Assise 1910, busta 200, fasc. 3, proc. 13/1910 - concessione Ministero della Cultura)

Il vicolo chiuso B di corso Trinità, dal quale la 58enne signora Mariantonia uscì la notte del 28 febbraio 1910 nascondendo il cadaverino che sarebbe stato ritrovato in corso Vico la mattina dopo, 1 marzo. Le imputate risiedevano lì perché il capofamiglia, essendo acquaiuolo, si recava ogni giorno alla vicina fontana del Rosello. È impossibile sapere quale fosse l'abitazione precisa perché il vicolo non aveva i numeri civici.

Dove all'epoca vi era il terreno incolto (annesso al gasometro) in cui fu gettato il cadaverino, oggi vi è uno spiazzo. La ringhiera che evitava che i passanti rotolassero giù da corso Vico è ancora intatta, ma nascosta da una palizzata.

Corso Vico oggi. La palizzata separa la strada dal dislivello degli ex terreni del gasometro, il cui stabile in rovina si intravede in lontananza proprio dietro. Nella foto storica a inizio articolo si apprezza invece corso Vico con i bagolari ancora piccoli e si può capire l'ambientazione all'epoca del fatto.

Il dispositivo della sentenza con cui il giudice Sanna Camerada dichiarò "assolte le accusate S. Giuseppina e M. Mariantonia" ordinando che fossero "immediatamente poste in libertà". (fonte: Archivio di Stato di SS, Corte d'Assise 1910, busta 200, fasc. 3, proc. 13/1910 - concessione Ministero della Cultura)









*** Questa ricerca storica ha richiesto tanto impegno e tempo. Per scopi divulgativi si può riprodurne in parte il testo, citando obbligatoriamente me ed il mio blog come fonte (anche qualora ne cambiassi le parole utilizzandone però le informazioni). Per scopi commerciali (libri, pubblicazioni etc.) è necessario chiedermi preventivamente il permesso a sassariantica@gmail.com - Grazie per la lettura. ***