domenica 4 dicembre 2022

IL CADAVERINO DI CORSO VICO E L'ATROCE MISTERO DEL MARZO 1910.

Testo e ricerca storica di Marco Atzeni (fonti documentali: Archivio di Stato SS e Biblioteca Comunale SS).


Erano le sette e trenta del primo marzo 1910 e tra uno sbadiglio e l'altro il lampionaio Salvatore Piras percorreva corso Vico per andare al lavoro. Mentre transitava, notò tre ragazzetti affacciati alla lunga ringhiera che all'epoca divideva il viale dai terreni annessi al gasometro, proprio dove lui si stava recando. Qualche metro più giù, in mezzo alle erbacce, sembrava infatti giacere un fagotto bianco inzuppato di sangue. Forse qualcuno s'era divertito a torturare un cagnolino e a disfarsene. Signor Salvatore scavalcò, andò a controllare e aperto il fagotto gli si bloccò il respiro. Era il cadaverino tumefatto di un neonato, con il cordone ombelicale attaccato. Il dottor Giomaria Sotgia fu incaricato dell'autopsia e allargando le braccia confermò agli inquirenti che quella morte non aveva niente di naturale. Il bebè aveva poche ore e profonde contusioni alla testolina e al collo ne avevano causato il decesso.

Chi, e perché, aveva ucciso un innocente appena venuto alla luce? Il sessantenne commissario Nunzio Macaluso sguinzagliò i suoi collaboratori nelle vie circostanti la zona del ritrovamento. Dopo alcuni giorni, mentre qualcuno sosteneva che girasse un mostro che strappava i neonati dal ventre delle madri, gli agenti in borghese si recarono di buona mattina in corso Trinità e, imboccato il vicolo chiuso B, picchiettarono alla porta di un misero magazzino adattato ad abitazione. Aprì una ventenne di nome Giuseppina, che sbiancando ammise d'aver partorito da poco. Gli agenti la condussero in caserma e le chiesero maggiori spiegazioni. Lei tremolante raccontò di sbarcare il lunario come donna di servizio in via Carmelo, nella dimora di signora Schiappacasse. La padrona di casa riceveva le visite d'un giovane nipote odontoiatra, il cui nome era Antonino, e questi aveva posato gli occhi proprio sulla domestica Giuseppina. La ragazza aveva accettato l'invito dell'uomo per una serie di controlli ai denti e quegli abboccamenti avevano portato scottante risultato, poiché lei era rimasta incinta. Ogni illusione della povera domestica svanì però presto, poiché Antonino, appresa la notizia, se l'era data a gambe.

Giuseppina, sola e umiliata, aveva così nascosto la gravidanza comprimendosi il ventre con gonnelle strette e dolorose, finché, nove mesi dopo, il giorno in cui le fitte si fecero fortissime, non era andata a lavorare e in quel sottano del vicolo chiuso B, dove viveva in affitto con i genitori, aveva partorito con le lacrime agli occhi il suo neonato illegittimo. Gli agenti, immersi nel fumo di sigaro, la pressarono sulla fine che avesse fatto quella creaturina e lei crollò: il piccolo era stato immediatamente colpito al capo e soffocato. Il commissario però non credeva che una donna giovanissima, per giunta stravolta dal parto, avesse avuto il fegato di macchiarsi d'un tal gesto e nella vicenda sbucò il personaggio finale: la mamma di lei, signora Mariantonia, che aveva contribuito in modo decisivo all'uccisione di quel nipotino indesiderato. La donna, arrestata in un oliveto a Piandanna, dove lavorava alla giornata, confermò l'accaduto confessando inoltre d'esser stata lei ad avvolgere il corpicino in un lenzuolo e d'averlo nascosto sotto lo scialle nel breve tragitto a piedi da corso Trinità sino al terreno del gasometro, dove l'aveva gettato a notte fonda per poi tornarsene a dormire.

Il caso era chiuso: Mariantonia e sua figlia Giuseppina, il cui secondo nome era Anatolia, vennero condotte in via Roma e rinchiuse in una cella del braccio femminile di san Sebastiano con l'accusa di infanticidio e occultamento di cadavere. Rimasero agli arresti per tutta l'estate e a Novembre si svolse il processo nelle eleganti sale della Corte d'Assise. Le imputate, però, rispetto al momento dell'arresto, erano ora assistite da diversi avvocatidi cui ben tre a tutela di Giuseppina, tra i quali spiccava un trentenne Lare Marghinotti a inizio carriera (gli altri erano Piero Campus e Giuseppe Abozzi), mentre Giovanni Zirulia assisteva Mariantonia. La difesa fu prestata pro bono poiché le accusate vivevano in miseria ed erano analfabete. Le due ritrattarono le confessioni, dichiarando che il parto era avvenuto in piedi, che il neonato era morto sbattendo la testa sul pavimento perché Giuseppina era svenuta con lui ancora attaccato e i segni sul collo erano dovuti al fatto che Mariantonia aveva provato a rianimarlo. Sorvolarono però sul perché l'avessero dunque gettato via. L'avvocato Marghinotti la fece breve, invocando l'assoluzione per infermità mentale. La corte si riunì e il giudice Giovanni Antonio Sanna Camerada si alzò in piedi per leggere con voce stentorea la sentenza che sanciva che Giuseppina e Mariantonia erano da rimettere in libertà perché ritenute non colpevoli. Dai banchi del pubblico (rientrato solo per la lettura, visto che il dibattimento si svolse a porte chiuse perché pericoloso per la morale) scrosciarono gli applausi dei fratelli e delle sorelle di Giuseppina e del padre-marito delle assolte, che si chiamava Giovanni Antonio. La famiglia si abbracciò, se ne tornò a pranzare al misero magazzino del vicolo chiuso B e Sassari dimenticò in fretta il tutto.

Quella sentenza vecchia d'un secolo, oggi risulta assurda, ma è necessaria una chiave di lettura. Una giovane che partoriva un figlio da una relazione fugace veniva posta ai margini della società assieme al suo bambino e nessun altro uomo avrebbe mai accettato di sposare un'impura facendosi carico del figlio di nessuno. Per tal motivo, gli orfanotrofi a Sassari traboccavano di neonati illegittimi e a volte alcune donne lavavano la vergogna con la collaborazione di un familiare, organizzando un infanticidio salva onore che persino la legge trovava la via di scusare. Pertanto, per quanto riguarda Giuseppina, l'epilogo della vicenda narra che un pugno d'anni dopo poté sposarsi con un uomo di nome Edoardo e con lui fece famiglia. Chissà quante volte, però, nel silenzio della notte, le tornò alla mente il vagito del suo primo neonato, morto senza nome, che aveva dovuto sacrificare per evitargli una vita più misera di quella che lei già aveva.

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Il quotidiano "La Nuova Sardegna" seguì l'infanticidio con alcuni trafiletti che tenevano aggiornata la popolazione sassarese sull'evolversi delle indagini. All'epoca non si risparmiavano dettagli macabri che oggi verrebbero ritenuti di cattivo gusto. (fonte: Biblioteca Comunale SS).

Il frontespizio del corposo verbale del processo a carico di Giuseppina S. e Mariantonia M. L'accusa era di infanticidio "mediante soffocazione e percosse" per "salvare l'onore". Si tenga in considerazione che in questa ricerca i cognomi delle persone coinvolte non sono riportati per rispetto. (fonte: Archivio di Stato di SS, Corte d'Assise 1910, busta 200, fasc. 3, proc. 13/1910 - concessione Ministero della Cultura)

Il vicolo chiuso B di corso Trinità, dal quale la 58enne signora Mariantonia uscì la notte del 28 febbraio 1910 nascondendo il cadaverino che sarebbe stato ritrovato in corso Vico la mattina dopo, 1 marzo. Le imputate risiedevano lì perché il capofamiglia, essendo acquaiuolo, si recava ogni giorno alla vicina fontana del Rosello. È impossibile sapere quale fosse l'abitazione precisa perché il vicolo non aveva i numeri civici.

Dove all'epoca vi era il terreno incolto (annesso al gasometro) in cui fu gettato il cadaverino, oggi vi è uno spiazzo. La ringhiera che evitava che i passanti rotolassero giù da corso Vico è ancora intatta, ma nascosta da una palizzata.

Corso Vico oggi. La palizzata separa la strada dal dislivello degli ex terreni del gasometro, il cui stabile in rovina si intravede in lontananza proprio dietro. Nella foto storica a inizio articolo si apprezza invece corso Vico con i bagolari ancora piccoli e si può capire l'ambientazione all'epoca del fatto.

Il dispositivo della sentenza con cui il giudice Sanna Camerada dichiarò "assolte le accusate S. Giuseppina e M. Mariantonia" ordinando che fossero "immediatamente poste in libertà". (fonte: Archivio di Stato di SS, Corte d'Assise 1910, busta 200, fasc. 3, proc. 13/1910 - concessione Ministero della Cultura)









*** Questa ricerca storica ha richiesto tanto impegno e tempo. Per scopi divulgativi si può riprodurne in parte il testo, citando obbligatoriamente me ed il mio blog come fonte (anche qualora ne cambiassi le parole utilizzandone però le informazioni). Per scopi commerciali (libri, pubblicazioni etc.) è necessario chiedermi preventivamente il permesso a sassariantica@gmail.com - Grazie per la lettura. ***